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I casinò italiani ancora alla prova del quantum

02 febbraio 2019 - 04:46

Il 'quantum' che il gestore si impegna a versare all’ente pubblico resta tema di grande attualità per i casinò.

Scritto da Mauro Natta

Dai recentissimi fatti in tema di casinò emerge la rilevanza enorme che il quantum in discorso assume nel determinare il futuro delle case da gioco. Se si pone mente alle motivazioni che sono alla base delle autorizzazioni (in deroga alle norme del codice penale) non è comprensibile che la fissazione di quanto rimane al Comune o alla Regione sia conteggiato in modo diverso dal riferimento percentuale ai proventi di gioco.

Detti proventi – ormai tutti ne conoscono la natura giuridica – sono, nella realtà, per la loro interezza di proprietà dell’ente pubblico il quale può autorizzare il gestore (si tratta di una società partecipata a capitale interamente pubblico) a trattenerne una parte (ad esempio la quota mance che non compete al personale tecnico, come avviene, credo, a Venezia). Contemporaneamente, tramite una convenzione, un capitolato o un disciplinare, il concedente si impegna a versare al concessionario una percentuale dei restanti proventi o, come ad esempio in Valle d’Aosta, è il gestore concessionario impegnato a versare con cadenza prefissata una determinata percentuale all’amministrazione del concedente.

In buona sostanza è la quota che rimane di competenza dell’ente pubblico a esigere una fissazione in percentuale ai proventi e non dovrebbe determinarsi in un fisso!
Sicuramente non si potrebbe considerare detta quota alla stessa stregua di un affitto, ad esempio di una abitazione, ma altrettanto sicuramente come una entrata tributaria che dipende esclusivamente dal volume dei ricavi e dei costi.

Siamo, penso tutti, d’accordo nell’affermare che il Comune o la Regione sono gli unici titolari delle entrate derivanti dalla gestione della casa da gioco e, di conseguenza, che il soggetto concessionario della riscossione delle imposte, tributi e canoni di pertinenza del Comune o della Regione è lo stesso ente pubblico.

Gli avvenimenti ricordati precedentemente allo stesso modo mi permetto di affrontare il discorso della perdita d’esercizio della società di gestione che doveva essere ripianata o, comunque, riconosciuta quale mancato introito pubblicistico; non potrebbe ammettersi, come avviene nel caso di Venezia, che il casinò sia debitore per non aver versato al Comune quanto ha potuto evitare una sicura perdita d’esercizio (a parte la mancata regolarizzazione in Consiglio), lasciano introdurre un nuovo elemento di discussione: il costo del personale.

Ragion per cui – pur ammettendo che l’occupazione diretta e dell’indotto è un fatto positivo dell’ente pubblico titolare di una autorizzazione alla casa da gioco – sorge un nuovo problema: garantire alla società di gestione l’equilibrio economico e finanziario.
 
A una percentuale dei proventi spettante al concedente dovrà essere aggiunto un riferimento all’incidenza su detti proventi del costo appena accennato. Se la memoria non mi fa danno credo che un contratto tra Comune e gestore che teneva in considerazione l’equilibrio di cui sopra sia stato, non riesco a ricordare, se statuito o solo studiato e proposto; ciò a Sanremo parecchi anni or sono.
 
Datemi pure del noioso, avete perfettamente ragione; per l’ultima volta colgo l’occasione per raccomandare ai rappresentanti dell’ente pubblico titolari di case di gioco di impegnarsi in questa azione a difesa sia dell’occupazione sia, ancor più, delle entrate tributarie (revisione della tassazione delle mance in quanto uguali alla vincita al gioco che è esente Irpef).
 
Non è assolutamente il mio compito, ma un suggerimento lo intendo proporre: il quantum di competenza della gestione può rappresentare una forma di ulteriore controllo indiretto sui costi e sulla congruità degli stessi; ciò mi pare il vero impegno della pubblica amministrazione.
 

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